venerdì 19 gennaio 2018

Morire per le foreste in Kenya

Da The Guardian - 19 gennaio 2018 - di Jonathan Watts


Morire per le foreste in Kenya


Ma a morire non sono attivisti protezionisti. Al contrario, è stato ucciso un pastore indigeno durante un'evacuazione forzata di un villaggio per un progetto di conservazione dell'acqua finanziato dall'U.E.

L'Unione europea è stata accusata di una risposta fatalmente lenta e blanda agli avvertimenti sul rispetto dei diritti umani dopo l'uccisione di un indigeno in uno dei progetti finanziati in Kenya.
Robert Kirotich, un Sengwer - una delle ultime popolazioni forestali del Paese - è stato riferito sia stato ucciso dal Servizio Forestale del Kenya durante uno sfratto forzato per il progetto di conservazione dell'acqua da 31 milioni di euro finanziato dall'UE a Mount Elgon e Cherangani Hills.
Membri della sua comunità hanno detto che le guardie forestali hanno sparato proiettili contro un gruppo di 15 uomini che stavano allevando bestiame a Kapkot Glade. Secondo quanto riferito, gli aggressori hanno bruciato case, ferito un altro uomo - David Kipkosgei Kiptilkesi - e ucciso Kirotich.
"Abbiamo sempre cercato di evitare una situazione così drammatica, ma l'Unione Europea ed il Governo hanno ignorato le nostre grida", ha scritto l'attivista dei Sengwer, Elias Kimaiyo, in una e-mail all'Organizzazione per la Protezione delle Foreste.
Stefano Dejak, l'ambasciatore dell'UE in Kenya, ha condannato l'omicidio ed ha inviato al governo keniota l'avvertimento che l'uso della forza avrebbe comportato una sospensione dei finanziamenti.
Il progetto riprenderà solo "se verranno fornite garanzie che benefici e rispetti tutti i keniani, incluse le comunità indigene", ha detto Dejak al Guardian. Ma questa risposta è stata criticata come tardiva.
Migliaia di case sarebbero state bruciate dai ranger del Kenya Forest Service in un'azione di sgombero sugli altopiani coperti dalla foresta di Embobut, che è un'importante fonte d'acqua.
Il conflitto sulla terra in quelle zone risale all'era coloniale britannica. Più recentemente, è deflagrato come conseguenza della decisione del governo di classificare il territorio ancestrale dei popoli Sengwer e Ogiek come area di conservazione.
Thousands of homes have reported to have been burned down by Kenyan Forestry Service rangers in the Embobut forest.
Una delle operazioni di evacuazione di villaggi in Kenya
per la realizzazione del progetto finanziato dall'U.E.
I residenti sono stati ritenuti occupanti abusivi e costretti a fuggire da quelli che sostengono essere state vessazioni, intimidazioni e arresti da parte del governo kenyota.
L'attenzione sulla questione è aumentata nel 2014 quando centinaia di ONG hanno definito "genocidio culturale" quel che stava avvenendo nei confronti delle popolazioni Sengwer e Ogieke e la Banca Mondiale aveva ammesso che il suo progetto di compensazione del carbonio nell'area stava violando i diritti umani.

L'UE è stata coinvolta nel 2016, quando ha accettato di finanziare il programma di protezione delle torri idriche e di mitigazione dei cambiamenti climatici, sul territorio contestato. Dejak ha affermato che gli impatti sui diritti umani e sociali sono stati valutati in uno studio di fattibilità durante la fase iniziale.
Ma i sostenitori dei Sengwer dicono che i loro avvertimenti sono stati ignorati. Justin Kenrick del Forest Peoples Programme ha detto che l'UE ha finanziato il Servizio forestale del Kenya facendo un passo indietro rispetto alla Banca Mondiale non riconoscendo l'esistenza dei Sengwer e deglii Ogiek.
"La risposta dell'UE è stata estremamente blanda e completamente incoerente con la politica dell'UE per le popolazioni indigene", ha affermato Kenrick. "L'UE non ha imparato dagli errori del progetto della Banca Mondiale".Poco prima dell'uccisione di Kirotich, tre esperti delle Nazioni Unite - John Knox, Michel Forst e Victoria Tauli Corpuz - hanno chiesto al Kenya di fermare gli sfratti ed all'UE a sospendere il suo progetto.
Anche Amnesty International ha sollevato preoccupazioni. La ONG ed altri attivisti sostengono che il modo migliore per proseguire nel progetto è far sì che le popolazioni indigene siano coinvolte nel processo decisionale e nella gestione della foresta.
L'UE, l'ONU ed Amnesty International hanno effettuato una missione esplorativa nella regione nella giornata odierna.





da The Economist - 12 dicembre 2017


Perché le foreste si diffondono

nel mondo ricco 



L'America del Sud e l'Africa sub-sahariana stanno vivendo la deforestazione, ma in Europa è una storia molto diversa.
In Grecia ed in Italia la crescita della superficie forestale, dal 1990 ad oggi, è passata dal 26% al 32%.




Le foreste, in paesi come il Brasile e il Congo, godono di molta attenzione da parte degli ambientalisti ed è facile capire perché. L'America del Sud e l'Africa sub-sahariana stanno sperimentando la deforestazione su vasta scala: ogni anno si perdono quasi 5 milioni di ettari.
L'immagine può contenere: cielo, albero, pianta, nuvola, spazio all'aperto, natura e acqua
Paesaggio del nord del Portogallo,
ai confini con la Spagna. Sullo sfondo, una piantagione
di eucalipti.
Ma le foreste stanno cambiando anche nei ricchi Paesi occidentali. Stanno diventando più grandi, sia nel senso che occupano più terra  sia nel senso che gli alberi sono più grandi. Cosa sta succedendo?
Le foreste si stanno diffondendo in quasi tutti i Paesi occidentali, con la crescita più rapida in luoghi che storicamente avevano scarsa copertura forestale. Nel 1990 il 28% della Spagna era boscoso; ora la percentuale è del 37%. In Grecia ed in Italia la crescita è passata dal 26% al 32% nello stesso periodo. Le foreste stanno gradualmente prendendo più terra in America ed in Australia. Forse la cosa più sorprendente è la tendenza in Irlanda. Circa l'1% di quel paese era coperto da foreste quando divenne indipendente nel 1922. Ora le foreste coprono l'11% del territorio e il governo vuole spingere la percentuale al 18% entro il 2040.
Due cause su tutte sono alla base di questa crescita. Il primo è l'abbandono dei terreni agricoli, specialmente in luoghi ad altidudine elevata e riarsi, dove nulla cresce adeguatamente bene. Laddove gli uomini rinunciano a ricavare reddito da olive o da pecore, lì gli alberi semplicemente si insediano. 

L'"inverdimento" dell'Occidente non delizia tutti. Gli agricoltori lamentano che le piantagioni di alberi generosamente sovvenzionate sono state dismesse (ricevono anche sussidi per l'agricoltura, ma quelli per piantare alberi sono particolarmente generosi).

Il secondo è composto da politica e sussidio economico. I governi hanno protetto e promosso le foreste per diversi motivi che vanno dalla necessità legname per la costruzioni di navi da guerra in legno al desiderio di promuovere la costruzione di case suburbane. Sempre più spesso accolgono le foreste perché consentono la cattura e lo stocccaggio di carbonio. Le giustificazioni cambiano; il desiderio di più alberi rimane costante.
L'"inverdimento" dell'Occidente non delizia tutti. Gli agricoltori lamentano che le piantagioni di alberi generosamente sovvenzionate sono state dismesse (ricevono anche sussidi per l'agricoltura, ma quelli per la piantagione di alberi sono particolarmente generosi). Zone estese di Spagna e Portogallo sono afflitte da terribili incendi boschivi. Questi bruciano particolarmente violenti nelle aree con piantagioni di eucalipto, una specie di importazione australiana piantata per la sua polpa utile alle cartiere, ma che poi si è diffusa da sola. Altri semplicemente non amano l'aspetto delle foreste di conifere piantate in file ordinate. Dovranno abituarsi agli alberi, comunque. La crescita delle foreste occidentali sembra quasi altrettanto inesorabile della deforestazione altrove.

giovedì 18 gennaio 2018

Da The Guardian - 17 gennaio 2018 - di  Patrick Barkham



Il nonsense per l'Albanella reale
dopo la Brexit




Il governo di Theresa May, vorrebbe rimuovere dai nidi i pulli della specie a rischio di estinzione ed allevarli in cattività per placare i proprietari di brughiere che lamentano l'aumento di predazione di pernice bianca (Lagopus lagopus scotica) da parte del rapace.





I controversi piani del governo per rimuovere i pulcini dai nidi di uno degli uccelli più rari d'Inghilterra ed allevarli in cattività sono stati criticati come "assurdità" dagli ambientalisti.
Pulli o uova di albanella reale (Circus cyaneus) saranno rimossi dai nidi nel nord dell'Inghilterra e allevati in cattività prima di essere reintrodotti in natura, sotto i termini di una licenza biennale rilasciata da Natural England, l'organismo di controllo del governo.
Lo schema di "gestione della covata" è progettato per aumentare il numero di esemplari di albanella reale ma anche per placare i proprietari di brughiere che si oppongono all'incremento di predazioni di pernici bianche da parte delle albanelle. Si spera così di fermare gli atti di bracconaggio nei confronti delle albanelle reali, dando ai proprietari terrieri il conforto che le popolazioni del rapace non si espanderanno nelle loro brughiere.
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Esemplare di Albanella reale (Foto: Giuseppe Nuovo)
Ma l'RSPB (Royal Society for Protection of Birds) ha detto che l'albanella reale è sull'orlo dell'estinzione come specie nidificante in Inghilterra a causa della persecuzione illegale ed ha chiesto al segretario dell'ambiente, Michael Gove, di revocare la licenza definita "ridicola".
Un portavoce dell'RSPB ha dichiarato: "L'idea che la gestione della covata sia di aiuto all'albanella reale è un'assurdità. Così si facilita l'insostenibile gestione intensiva del territorio che sta distruggendo i nostri terreni montuosi. Per essere chiari, la RSPB è assolutamente contraria a questo non lo permetteremo mai sulle nostre proprietà".
 In Inghilterra, solo tre nidi di albanella reale hanno prodotto pulcini nel 2017, nonostante gli ecologi abbiano calcolato che l'habitat delle brughiere avrebbe naturalmente potuto ospitare almeno 300 coppie.
La gestione della covata è parte del piano di azione per l'incremento dell'albanella reale del Dipartimento per l'ambiente, l'alimentazione e gli affari rurali, che mira a ridurre la predazione dei piccoli di pernice da parte delle albanelle, incrementando la popolazione di queste ultime.
Andrew Sells, presidente di Natural England, ha dichiarato: "È un quadro complicato ed emotivo della situazione ed abbiamo considerato quest Piano con molta attenzione. Concedere in licenza questo processo permetterà di raccogliere importanti evidenze che, spero sinceramente, porteranno ad una popolazione autosufficiente e ben dispersa di questi meravigliosi uccelli in tutta l'Inghilterra".
Amanda Anderson, direttrice della Moorland Association, si è detta soddisfatta della 'rivoluzionaria licenza di ricerca'. "La brughiera gestita per la pernice bianca contribuisce in modo significativo alle comunità rurali, alle aziende ed ai paesaggi preziosi. Questa nuova licenza di gestione della fauna selvatica darà ai proprietari terrieri la sicurezza che gli impatti dell'albanella reale sulla loro terra possano essere ridotti al minimo, creando uno scenario vantaggioso per tutti".
L'esperto di fauna selvatica Mark Avery ha condannato il Piano di azione: "Defra ha una posizione 'morbida' sui crimini contro la fauna selvatica e sulle loro cause. È completamente avvinghiato a letto con l'industria della caccia alla pernice ed il compito di Natural England è quello di sprimacciare i cuscini, lisciare le lenzuola e fornire bottiglie di acqua calda".

Da Los Angeles Times - 16 gennaio 2018




Los Angeles ha bisogno di spazi aperti per la natura e per la salute
dei cittadini


Nell'editoriale del "
board" del grande quotidiano della west coast statunitense, una presa di posizione importante per il futuro della "città degli angeli": mantenere spazi adeguati per la fauna selvatica. Quello che un giornale dovrebbe sempre fare, informare e formare l'opinione pubblica. E noi ce la meniamo per qualche cinghiale...



Per anni, gli sviluppi residenziali nelle colline e nei canyon di Los Angeles hanno impattato la fauna selvatica mentre i nostri quartieri si sono diffusi a macchia d'olio.
Non sorprende che continuiamo ad espanderci; la città ha più persone di quante non ne ha mai avute e abbiamo bisogno disperatamente di alloggi. Ma abbiamo anche bisogno di spazi aperti, non solo per la nostra salute mentale e per la bellezza della nostra città, ma anche se ci interessa mantenere una popolazione di fauna selvatica urbana.
Un modo per preservare lo spazio aperto è comprarlo. Questo è ciò che un'alleanza di gruppi di comunità e di difensori della fauna selvatica ha promesso di fare per proteggere un promontorio di 17 acri (quasi 7 ettari, n.d.t.) sulle colline di Hollywood, sopra il quartiere di Laurel Canyon. Due anni dopo aver iniziato la campagna di raccolta fondi, Citizens for Los Angeles Wildlife, un gruppo di conservazione della natura senza scopo di lucro, e Laurel Canyon Association., un'organizzazione di quartiere, hanno annunciato a fine dicembre di aver raccolto con successo 1,6 milioni di dollari per acquistare la collina. Le donazioni provengono da individui (inclusi 100.000 dollari dal musicista Don Henley) quali la Santa Monica Mountains Conservancy Foundation, Paul Koretz e David Ryu, membri del consiglio comunale di Los Angeles, che hanno contribuito con proprio denaro, e Sheila Kuehl, supervisore della contea, che ha convinto il Consiglio dei Supervisori (una sorta di Collegio di Revisione ma con competenze ben più ampie n.d.t.) ad approvare una sovvenzione di 100.000 dollari.

"È impegnativo, ma è possibile lasciare spazio nella vivace metropoli per la fauna che era qui da molto prima di noi"

È stato uno sforzo ambizioso della comunità che salverà quella che è in effetti un'oasi per creature altrimenti bloccate in una città sempre più densa. Chiunque dubiti della sua importanza per quegli animali non ha che guardare la "nature cam" sul sito web della riserva che ha fotografato cervi, coyote, quaglie, una lince rossa, una volpe ed un inaspettato leone di montagna (puma). Il terreno è stato ora assegnato alla Mountain Recreation & Conservation Authority, un'entità governativa locale, per gestire e preservare quel territorio. Ciò rende il la Riserva pubblica, aperta a tutti, anche se è difficile accedere e non ha sentieri escursionistici. Per lo più, sono gli animali che usano questo lembo di terra e bevono dalla sua sorgente naturale. Per loro, questa è la definizione di un bene prezioso.
Tuttavia, ci dovrebbero essere modi meno drammatici e meno costosi per aiutare gli animali a sopravvivere. In effetti, la città ha approvato circa due anni fa un'ordinanza che richiede ai titolari di concessioni edilizie una zona di collegamento con gli habitat naturali destinata a corridoio per la fauna selvatica. Il problema è che l'ordinanza deve ancora essere implementata. La città dovrebbe muoversi.
leone di montagna
Puma (Puma concolor) immortalato da fototrappole
nella Riserva di Santa Monica, sulle colline di Los Angeles
Recentemente, il Dipartimento della California per la Pesca e la Fauna selvatica sta cambiando la sua politica nelle aree montuose di Santa Ana e Santa Monica per il rilascio di "permessi di abbattimento" richiesti da residenti i cui animali domestici o il cui bestiame siano stati uccisi dai leoni di montagna. Fino ad ora, questi permessi hanno consentito a costoro di uccidere il leone di montagna, nonostante le leggi rendono illegale la sua caccia. Le interazioni tra i leoni di montagna e gli esseri umani - o, più specificamente, i loro animali domestici - sono aumentate man mano che le persone si sono avvicinate al territorio naturale. Il problema è che quando i leoni di montagna uccidono prede facili fanno solo ciò che viene loro naturale. Abbatterli per vendetta non è una politica valida per affrontare queste interazioni.
Ora, invece di rilasciare immediatamente un permesso per uccidere un leone di montagna dopo che ha ucciso un animale, il Dipartimento, in sostanza, concede al puma tre predazioni prima di emettere un permesso di abbattimento. Alla prima segnalazione di un leone di montagna che ha ucciso un animale domestico o un animale da allevamento, al residente verranno insegnate le misure di prevenzione da adottare (come la protezione degli animali nei recinti di notte in modo che non diventino facili prede). Gli sarà anche concesso un permesso per abbagliare o scacciare il leone, ad esempio, con luci sensibili al movimento o musica ad alto volume. Se il leone di montagna ritorna e uccide di nuovo, il residente può ottenere un permesso per aumentare le misure, ad esempio sparare colpi di fucile con cartucce cariche di fagioli. Se il leone di montagna uccide una terza volta, può essere rilasciato un permesso per il suo abbattimento. Questo è un approccio razionale perché protegge queste maestose creature a meno che non sia chiaro che non è possibile scoraggiare le predazioni.
La Contea di Los Angeles è uno straordinario mix di città e natura selvaggia, di uomini e fauna selvatica. È una sfida, ma è possibile lasciare spazio nella vivace metropoli per la fauna selvatica che era qui da molto prima di noi.

mercoledì 17 gennaio 2018



Sempre a proposito delle buste compostabili - L'Università di Bari l'aveva già verificato




I nuovi bioshopper poco biodegradabili/2


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Tra il 2004 ed il 2005 l'Università degli Studi di Bari, ex Facoltà di Agraria, ha sperimentato l'uso delle bioplastiche in agricoltura e la loro biodegradabilità rilevando che la degradazione avviene lentamente nell'arco di circa un anno soltanto mediante interramento delle plastiche sminuzzate con una motozappa in suolo umido.
Durante la sperimentazione fu verificato che in acqua il processo non si verificava poiché era eseguito da batteri e da altri microrganismi presenti solo nel suolo umido. I risultati sono simili a quelli ottenuti oggi dall'Università di Pisa.

I progetti di ricerca con i quali furono testati una serie di film plastici ottenuti da Mater-Bi della Novamont, erano:

  • Progetto di ricerca Europeo RTD Quality of Life and Management of Living Resources "Biodegradable plastics for environmentally friendly and low tunnel cultivation – BIOPLASTICS" (Contract n.: QLK5-CT-2000-00044) finanziato dalla Comunità Europea;
  • Progetto di ricerca Europeo Life Environment "Biodegradable coverages for sustainable agriculture BIO.CO.AGRI." (Contract n.: Life 03 ENV/IT/000377) sul tema "Film biodegradabili innovativi per applicazioni agricole" finanziato dalla Comunità Europea;
  • Progetto di ricerca Europeo E.C. SME-CRAFT: "Development of protective structures covered with permeable materials for agricultural use - Agronets" (Contract n.: COOP-CT -2003-507865), finanziato dalla Commissione Europea.

da ANSA.it/Ambiente ed Energia del 17 gennaio 2018




I nuovi bioshopper poco biodegradabili





Studio dell'Università di Pisa toglie il velo alle ipocrisie. Se vanno a finire in mare, il danno c'è comunque. Ecco perché la recente norma che obbliga ad evidenziare il costo del sacchetto sugli scontrini appare ancora più assurda. 





Ci vogliono più di sei mesi al mare per "smaltire" i bioshopper ecologici che in ogni caso possono comunque alterare lo sviluppo delle piante e modificare alcune importanti variabili del sedimento marino ossigeno, temperatura e ph. Lo rivela uno studio condotto da un team di biologi dell'Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica 'Science of the Total Environment'. Il gruppo composto da Elena Balestri, Virginia Menicagli, Flavia Vallerini, Claudio Lardicci ha ricreato un ecosistema in miniatura per analizzare i potenziali effetti diretti o indiretti dell'immissione nell'ambiente marino delle nuove buste in bioplastica, la cui diffusione si prevede possa aumentare nei prossimi anni fino a raggiungere livelli simili a quelli delle buste tradizionali. "La nostra ricerca - sottolinea Lardicci - si inserisce nel dibattito sul 'marine plastic debris', cioè sui detriti di plastica in mare, tema globale e purtroppo molto attuale: abbiamo potuto verificare che anche le buste biodegradabili di nuova generazione attualmente in commercio hanno comunque tempi di degradazione lunghi, superiori ai sei mesi".
Risultati immagini per bioshopper
Come "specie modello" i ricercatori hanno selezionato due piante acquatiche tipiche del Mediterraneo, la Cymodocea nodosa e la Zostera noltei, valutando quindi la loro risposta a livello di singola specie e di comunità rispetto alla presenza nel sedimento di bioplastica compostabile. Lo studio ha quindi esaminato il tasso degradazione delle buste e alcune variabili chimico/fisiche del sedimento che influenzano lo sviluppo delle piante. "La nostra ricerca - conclude il biologo pisano - è l'unica ad aver valutato i possibili effetti della presenza di bioplastiche sui fondali marini e sulla crescita di organismi vegetali superiori: i rischi di una possibile massiccia immissione di plastiche cosiddette biodegradabili nei sedimenti marini e gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione sull'intero habitat sono in gran parte ignorati dall'opinione pubblica e non ancora adeguatamente indagati dalla letteratura scientifica".



da "Le Scienze - edizione italiana di Scientific American" del 17 gennaio 2018


I veri responsabili della Peste Nera



Le pandemie non furono colpa dei ratti ma di vettori infettivi diversi: la pulce dell'uomo ed il pidocchio del capo.




Le ondate di peste che colpirono l'Europa tra il XIV e i XIX secolo, tra cui la famigerata Peste Nera della metà del 1300, probabilmente furono causate da un contagio diretto da persona a persona, con pulci e pidocchi come vettori. Lo afferma uno studio basato su dati di diffusione e mortalità raccolti in varie fonti storiche, che scagiona i ratti dal ruolo di untori.
Nel film di Werner Herzog Nosferatu (1979) i moli del porto di Brema, in Germania, vengono invasi dai ratti arrivati con le navi. Poco dopo, la peste si diffonde nella città.
La scena è ispirata dal fatto che negli studi di epidemiologia - e nell’immaginario collettivo - questi roditori sono considerati il vettore della peste, sia nella cosiddetta "prima pandemia", più famosa col nome di Peste di Giustiniano, che colpì l'Impero Romano d'Oriente tra il 541 e il 542, sia nella “seconda pandemia”, che colpì in diverse ondate l’Europa tra il XIV e il XIX secolo, oltre al Medio Oriente e al Nord Africa; una di queste ondate, nota con il lugubre nome di Peste Nera, tra il 1347 e il 1352 uccise un terzo della popolazione europea.
I veri responsabili della Peste Nera
Microfotografia di Pulex irritans, la pulce dell'uomo
Ma fu veramente colpa dei ratti? Uno studio pubblicato su "Proceedings of the National Academy of Sciences" da Nils Stenseth dell’Università di Oslo, in Norvegia, e colleghi, tra i quali Barbara Bramanti dell’Università di Ferrara, chiama in causa vettori infettivi diversi: la pulce dell’uomo (Pulex irritans) e il pidocchio del capo (Pediculus humanus).
La peste è una malattia provocata dall’infezione del batterio Yersinia pestis. Le forme più comuni sono la peste bubbonica e quella polmonare. La prima insorge quando i batteri penetrano attraverso la pelle, di solito con il morso di una pulce infetta, e arrivano nei linfonodi, causando i caratteristici gonfiori o “bubboni”.
La pulce in questo caso funge solo da vettore di un'infezione diffusa tra roditori selvatici o commensali dell'uomo, come il ratto (Rattus rattus), ma l'infezione può anche essere trasmessa da persona a persona tramite i parassiti che vivono sulla superficie della pelle, come la pulce e il pidocchio.
Si parla invece di peste polmonare primaria quando i batteri sono trasportati da particelle di aerosol che vengono inalate, e di peste polmonare secondaria, che insorge come complicanza della peste bubbonica. I soggetti infettati dalla forma polmonare possono trasmettere direttamente l’infezione per via aerea, anche se le epidemie di peste polmonare in genere fanno meno vittime e si diffondono poco, poiché le persone colpite e non curate muoiono rapidamente.
Per capire in che modo si siano diffuse le epidemie storiche, Stenseth e colleghi hanno usato i dati di mortalità disponibili di nove epidemie di peste polmonare; l'obiettivo dei ricercatori era lo sviluppo di modelli delle vie di trasmissione della malattia, quella veicolata dai roditori e quella da pulci e pidocchi.
I modelli ottenuti hanno mostrato che in sette dei nove eventi studiati, gli schemi di mortalità sono maggiormente compatibili con il modello di trasmissione tramite pulci e pidocchi.
Questa conclusione spiegherebbe perché la seconda pandemia abbia avuto una diffusione ed una mortalità molto più elevata delle epidemie della terza pandemia, che si sviluppò a partire dal 1855 dalla provincia dello Yunnan, in Cina.
Ed è un risultato anche più coerente con altri dati storici ed epidemiologici. Nei secoli interessati dalla seconda pandemia, infatti, non risulta che i ratti fossero molto diffusi in nord Europa, né che ci sia stata una diffusa moria di questi roditori contemporanea o immediatamente precedente alle epidemie. Molte infezioni, infine, avvennero in ambienti domestici, il che fa pensare ad una via di trasmissione più diretta.

Maltrattamenti di animali





La Corte di Cassazione: detenere rapaci contro natura è reato




Con la sentenza n. 1489 del 15 gennaio 2018, la Suprema Corte, Sez. III, conferma la condanna dei titolari di un "parco faunistico" in Veneto perché detenevano esemplari di Poiana di Harris (
Parabuteo unicinctus), Allocco (Strix aluco), Gheppio (Falco tinnunculus), Barbagianni (Tyto alba) e Gufo reale (Bubo bubo) "in condizioni incompatibili con le loro caratteristiche etologiche".


martedì 16 gennaio 2018

Dal Ministero dell'Ambiente






Programma nazionale di incremento della resilienza dei sistemi forestali





Finanziato con i soldi della lotta ai cambiamenti climatici ma destinato agli interventi di forestazione di aree percorse dal fuoco nelle aree naturali protette. La Direzione Generale competente è quella per il clima e l'energia ma chi poi dovrà autorizzare l'eventuale forestazione in deroga al divieto previsto dalla Legge n. 353/2000 è quella competente per la protezione della natura.




da Indy100-Independent - 14 gennaio 2018 -  di Mimi Launder




Il lupo belga




Dopo un secolo, il principe dei predatori si riaffaccia nei Paesi Bassi e nel Paese di Fiamminghi e Valloni. Una buona notizia.





Un lupo è stato avvistato in Belgio, il primo avvistamento confermato nel Paese per oltre un secolo.
Il lupo, che aveva un collare radio, si è diretto verso il Belgio dalla Germania - una notizia importante per i ricercdatori che tengono sotto controllo la crescente popolazione di lupi europei.
Sebbene una volta i lupi vagabondassero in gran parte dell'Europa, le popolazioni si sono ridotte dopo la caccia eccessiva, l'industrializzazione e l'urbanizzazione.
Comprensibilmente, questo deriva anche dal fatto che gli esseri umani sono piuttosto spaventati dai lupi, molti dei quali provengono da miti e folclore che calunniano le specie predatorie.
Ma nel 1979, la Convenzione di Berna ha deciso che i lupi sono in realtà una specie protetta fondamentale per "il nostro patrimonio naturale europeo".
Ora, le popolazioni di lupi sono in crescita e l'International Wolf Center stima che ci siano ora 13.000 esemplari in Europa.
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Un esemplare di lupo (Canis lupus) "catturato" da fototrappole
del Parco Nazionale dell'Alta Murgia
Ma gran parte di quella vecchia paura rimane, culminando in Finlandia, che ha abbattuto, tra le polemiche, 55 dei suoi 290 lupi grigi tra il 2015 e il 2016.
Il governo finlandese sostiene che i proprietari terrieri potrebbero altrimenti cacciare illegalmente i lupi, spesso per proteggere il loro bestiame, mentre gli ambientalisti sono preoccupati per il basso numero di esemplari di lupo e per la diversità genetica della specie.
Recentemente, nei Paesi Bassi è stato avvistato un lupo in una riserva naturale olandese.

da ISPRA - 16 gennaio 2018




Nei boschi del Casentino con i gatti selvatici:

ecologia e monitoraggio di un felide elusivo in Italia

Azioni sul documento




Un predatore tra i più affascinanti ed efficaci. Un "fantasma" delle foreste che ancora è presente negli appennini ma anche in Puglia nel Parco Nazionale del Gargano e forse anche altrove...




di
Edoardo Velli, Federica Mattucci e Romolo Caniglia (Area per la Genetica della Conservazione, ISPRA, Ozzano dell’Emilia, Bologna),
Marco Lucchesi (Biologo), 
Marco A. Bologna (Dipartimento di Scienze, Università degli studi Roma Tre, Roma),
Ettore Randi (Department 18/ Section of Environmental Engineering, Aalborg University, Aalborg Øst.).



Il gatto selvatico Europeo (Felis silvestris silvestris) è un meso-carnivoro che, insieme alla lince eurasiatica delle Alpi Orientali, rappresenta l’unico felide selvatico sopravvissuto nell’Olocene recente in Italia (Masseti 2010).
Sebbene la sua definizione sistematica e tassonomica sia tuttora complessa da determinare, approfondite analisi filogenetiche lo collocano insieme ad altre 4 sottospecie selvatiche (F. silvestris lybica, F. silvestris cafra, F. silvestris ornata e F. silvestris bieti) nel taxon Felis silvestris (Driscoll et al. 2007). Il suo aspetto risulta molto simile a quello di un grosso gatto domestico soriano (Tabby) ma, ad una attenta analisi morfologica, è possibile individuare specifiche caratteristiche che, se presenti insieme, permettono di definirlo con sicurezza. Basti pensare alla coda, clavata e caratterizzata dalla punta nera e da due/tre anelli chiusi, alla netta linea dorsale che termina all'attaccatura della coda, alle quattro/cinque striature occipitali, alle due striature scapolari, al rinario nero (Ragni and Possenti 1996; Beaumont et al. 2001; Kitchener et al. 2005), tanto per citare le più rilevanti. È un predatore carnivoro obbligato che in Italia si ciba prevalentemente di roditori e che predilige le aree forestali, ma risulta in grado di adattarsi a diverse condizioni ambientali.
Solitario, elusivo, territoriale e notturno, il gatto selvatico è un importante regolatore ecologico e, anche se sfuggente, misterioso e ancora poco conosciuto, il suo fascino lo rende una specie dal considerevole impatto mediatico. Come molti altri carnivori, anche il gatto selvatico ha subìto una 
Esemplare di gatto selvatico "catturato"da fototrappole
del Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga
costante persecuzione nel passato quale animale nocivo (il Regio Decreto N. 1016 del 1939 ne promuoveva l’uccisione con lacci, tagliole, trappole e bocconi avvelenati) e il suo areale si è contratto e frammentato drasticamente sia in Italia che in Europa. Dalla seconda metà degli anni ’70 la sua protezione ne ha consentito la ripresa demografica e territoriale. Sebbene in Italia la conoscenza della sua consistenza e distribuzione sia ancora incompleta a causa della difficoltà di studio che la specie stessa comporta, la presenza del gatto selvatico Europeo è ad oggi accertata, con popolazioni ben differenziate, in Sicilia, lungo la dorsale appenninica dall’Aspromonte fino alle zone più settentrionali del Casentino, in Maremma e nelle Alpi Orientali (Mattucci et al. 2013). Recenti ritrovamenti ne suggeriscono il ritorno anche sulle Alpi Occidentali. Il gatto selvatico Europeo è ancora fortemente minacciato dalla frammentazione degli habitat e conseguentemente delle sue popolazioni, dalle cause di morte antropogenica (investimenti stradali) e soprattutto dall’ibridazione con il gatto domestico (Oliveira et al. 2008; Lozano et al. 2012).
Il monitoraggio delle dinamiche di popolazione di gatto selvatico sono lo strumento di base per conoscere e affrontare le minacce sopra citate, con particolare riferimento all’ibridazione con il gatto domestico. Il gatto domestico (Felis silvestris catus) è ampiamente diffuso in tutto il mondo. Sebbene molto vicino geneticamente ed etologicamente al gatto selvatico Europeo, deriva però dal gatto selvatico Nord Africano (Felis silvestris lybica) con cui condivide anche gran parte della linea mitocondriale. Il suo processo di domesticazione, complesso ed affascinante, con ogni probabilità ebbe inizio nella zona della “mezza luna fertile”, in Mesopotamia, durante il periodo in cui le popolazioni mesolitiche dell’area (es. Natufiani) cominciarono a dedicarsi ai processi di coltivazione e immagazzinamento delle granaglie (13.000 – 10.000 anni fa) spinti anche dai cambiamenti climatici del “Dryas Recente”. La crescente disponibilità di cibo e la mancanza di predatori favorì la diffusione di numerosi roditori che a loro volta incoraggiarono gli individui di gatto selvatico più intraprendenti 


(e quindi geneticamente meno proni alla paura verso l’uomo; Montague 2014) a gravitare intorno agli insediamenti umani. Ben presto gli uomini cominciarono a realizzare che i piccoli felini avrebbero potuto rivelarsi dei preziosi alleati nella protezione delle risorse alimentari dai roditori, iniziando così probabilmente il processo di selezione artificiale (Driscoll et al. 2009b; Zeder 2012b;). Con il passare del tempo questo processo ha gradualmente legato il gatto domestico al “ruolo” di predatore, mantenendone un’alta efficienza nella caccia, ma ne ha anche aumentato la vulnerabilità per specifici patogeni e malattie per i quali, grazie alle cure dell’uomo, il gatto domestico ha limitato o perso la componente selettiva. Per questa ed altre ragioni di carattere più conservazionistico, l’ibridazione tra la sottospecie domestica e quelle selvatiche risulta molto pericolosa e può compromettere intere popolazioni (così come accaduto a quella scozzese ormai in larga parte introgressa). Il monitoraggio delle popolazioni di gatto selvatico è quindi molto importante per definirne in primis consistenza e dinamica ma anche per quantificarne l’incidenza del rischio di ibridazione. Lo studio di questa specie, come per molte specie di felini, è piuttosto complesso per le caratteristiche etologiche ed ecologiche già citate. In passato l’animale veniva studiato per lo più grazie a metodi diretti, come la cattura ed il radio collaraggio e/o tramite fototrappolaggio (Bizzarri et al 2010; Anile et al 2010). L’integrazione delle metodologie di genetica non invasiva ha permesso di aumentare la mole di informazioni mantenendo lo sforzo di campionamento inalterato. Queste tecniche mirano alla raccolta di campioni biologici non–invasivi (peli ed escrementi) cercando di massimizzare la probabilità di cattura e standardizzare il più possibile l’acquisizione del dato (Velli et al 2015). Il metodo si basa sulla definizione di una griglia di campionamento (in genere con maglie di 1kmq) in cui posizionare delle trappole per pelo imbevute di una sostanza che stimoli la marcatura dell’animale senza modificarne drasticamente il comportamento spaziale (tintura madre di valeriana, Monterroso et al 2011). La stazione è inoltre corredata di una o più fototrappole in grado di fornire dei documenti video-fotografici utili per estrapolare informazioni sul fenotipo e su alcuni aspetti comportamentali degli esemplari campionati; tali informazioni possono inoltre essere integrate agli eventuali genotipi ottenuti dall'analisi genetica dei campioni raccolti. Le stazioni sono collegate da transetti sui quali avviene una raccolta opportunistica di escrementi. Dal campione biologico, tramite la tipizzazione di un pannello di marcatori molecolari specifico (10 loci microsatelliti), viene determinato il genotipo individuale e l’appartenenza di questo (con un determinato margine di errore) alla popolazione selvatica, domestica o ibrida. La combinazione di tali metodiche ha permesso di compensare i punti deboli di ciascuna, come ad esempio l’effetto eterogeneo sugli individui della valeriana, la difficile identificazione degli escrementi, la mancanza di un dato genetico con il solo fototrappolaggio etc; mentre la loro applicazione in maniera sistematica ha permesso di ottenere stime di abbondanza e densità. Con questo sistema integrato di monitoraggio è stato possibile negli ultimi anni rilevare la presenza stabile ed in salute di una popolazione di gatto selvatico all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e delle sue riserve integrali, esplorando così una delle aree appenniniche più a nord dell’areale della specie precedentemente studiate solo in modo opportunistico. La presenza simpatrica di numerosi gatti domestici nell’area studiata e le tracce di introgressione mitocondriale domestica rilevate all’interno della popolazione selvatica, hanno permesso inoltre di quantificarne anche i rischi conservazionistici.
Ulteriori studi sono in atto per approfondire l’evoluzione filogeografica della specie che presenta, in molti casi, caratteristiche mitocondriali che dovrebbero essere tipiche del gatto domestico. Il gatto selvatico Europeo ed il gatto domestico presentano infatti genomi mitocondriali diversificati da diverse mutazioni fissate nelle due sottospecie. Al contrario il gatto domestico ed il gatto selvatico Nord Africano (da cui deriva) condividono linee genealogiche più recenti che risultano molto più complesse da districare. Il ritrovamento di aplotipi mitocondriali tipici del Felis s. catus/lybica in diversi esemplari di gatto selvatico Europeo apre pertanto diverse ipotesi, oltre a quella dell'introgressione domestica, che sono tuttora in analisi.
Il monitoraggio delle popolazioni di gatto selvatico Europeo e del fenomeno dell’ibridazione è un’attività complessa che richiede risorse e un’attenta pianificazione. Il sistema integrato di metodologie applicato nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e delle sue riserve integrali può essere utile per studiare anche altre specie elusive che condividono simili problematiche di studio. La sfida futura è quella di riuscire ad ottimizzare l’efficienza di genotipizzazione e di identificazione degli ibridi attraverso la selezione di marcatori altamente informativi, come ad esempio i polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs), da applicare alla genetica non invasiva.


Bibliografia
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  3. Bizzarri L, Lacrimini M, Ragni B (2010a) Live capture and handling of the European wildcat in central Italy. Hystrix-Italian Journal of Mammal 21:73-82
  4. Daniels MJ, Corbett L (2003) Redefining introgressed protected mammals: when is a wildcat a wild cat and a dingo a wild dog? Wildlife Research 30:213-218
  5. Driscoll CA et al. (2007) The Near Eastern origin of cat domestication. Science 317:519-523
  6. Driscoll CA, Clutton-Brock J, Kitchener AC, O'Brien SJ (2009a) The Taming of the Cat. Scientific American 300:68-75
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  8. Lozano J, Malo AF (2012) Conservation of European wildcat (Felis silvestris) in Mediterranean environments: a reassessment of current threats. In: Williams GS (ed) Mediterranean ecosystems: dynamics, management and conservation. Nova Science Publishers, Hauppauge, NY, pp 1–31.
  9. Masseti M. (2010) Zoologia storica e archeologica dei Felidi italiani. In: Randi E, Ragni B, Bizzarri L, Agostini N, Tedaldi G (2010) Biologia e conservazione dei Felidi in Italia. Atti del convegno - Santa Sofia (FC) 7-8 Novembre 2008. Ente Parco Nazionale Foreste Casentinesi 9-28
  10. Mattucci F, Oliveira R, Bizzarri L, Vercillo F, Anile S, Ragni B, Lapini L, Sforzi A, Alves PC, Lyons LA, Randi E (2013) Genetic structure of wildcat (Felis silvestris) populations in Italy. Ecology and Evolution 3:2443-2458
  11. Montague MJ, Li G, Gandolfi B, Khan R, et al. (2014) Comparative analysis of the domestic cat genome reveals genetic signatures underlying feline biology and domestication. Proceedings of National Acadamy of Science of United States of America 111(48):17230–17235
  12. Monterroso P, Alves PC, Ferreras P (2011) Evaluation of attractants for non-invasive studies of Iberian carnivore communities. Wildlife Resources 38:446-454
  13. Oliveira R, Godinho R, Randi E, Alves PC (2008) Hybridization versus conservation: are domestic cats threatening the genetic integrity of wildcats (Felis silvestris silvestris) in Iberian Peninsula? Philosophical Transactions of the Royal Society B-Biological Sciences 363:2953-2961
  14. 14-   Ragni B, Possenti M (1996) Variability of coat-colour and markings system in Felis silvestrisItalian Journal of Zoology 63:285-292
  15. Velli E., Bologna M. A., Castelli, S., Ragni B., Randi E. 2015. Non-invasive monitoring of the European wildcat (Felis silvestris silvestris Schreber, 1777): comparative analysis of three different monitoring techniques and evaluation of their integration. European Journal of Wildlife Research 61:657-668 DOI: 10.1007/s10344-015-0936-2
  16. Zeder MA (2012b) Pathways to Animal Domestication In: Gepts P, Famula TR, Bettinger RL, et al Biodiversity in Agriculture: Domestication, Evolution, and Sustainability. Cambridge University Press 227-259.

mercoledì 10 gennaio 2018

Il contraltare alla più grande acciaieria d'Europa non decolla






L'ILVA ed il Parco Regionale delle occasioni mancate






Meglio parlare di morte e di morti che di vita e di riscatto grazie all'area protetta "Terra delle gravine"?






Con la legge regionale n. 52 del 1. dicembre dello scorso anno, è stato stabilito che la gestione del Parco Naturale Regionale "Terra delle Gravine" (la più vasta area protetta a titolarità della Regione Puglia) sia affidata ad un Consorzio tra Enti Locali. Il Consorzio, però, non è stato ancora formalmente costituito e tutto ciò che, a cascata, la norma prevede venga fatto, ovviamente non è stato fatto. Comunque erediterà la gestione del Parco dall'Amministrazione provinciale di Taranto la quale, come noto, non ha brillato affatto nei compiti assegnati.
Intanto, nelle belle contrade della provincia di Taranto, l'ILVA sta sempre là con i suoi carichi inquinanti, i suoi fumi cancerosi ma anche con tanti posti di lavoro e relative famiglie con reddito.
C'è rapporto tra una realtà in divenire, speranzosa e bella come sono belle le gravine dell'arco jonico con il loro Parco, ed un mostro che sputa veleni mantenendo in piedi l'economia locale e nazionale?
La risposta è facile ed immediata. Sì. Ed è un rapporto complesso, di relazioni fisiche e psicologiche, di economie diametralmente opposte. Di morti che sono tali perché all'ILVA ci lavoravano e di quelli che lo sono per aver respirato aria mefitica e necrofora.
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Gravina di Laterza
Ma, superior stanno le città della Terra delle Gravine e longeque inferior sta Taranto con il mostro. Vien da pensare che la posizione dominante dei cittadini delle gravine in qualche modo li possa preservare dalle emissioni omicide. E vien pure da pensare che la gestione del Parco Regionale possa costituire un contraltare all'immagine di morbilità e di disinteresse per la salute pubblica della più grande acciaieria d'Europa. La sensazione, però, è che questa traccia di riscatto per il territorio tarantino non sia stata colta. Il Parco Regionale "Terra delle Gravine" ha avuto vita sempre grama. La genesi, prima del 2005, era piena di ponderazione e di confronto con i detentori di interessi. Si andava con i piedi di piombo ma con obiettivi chiari e precisi. Dal 2005 (con l'avvento della Giunta guidata da Nichi Vendola), un'accelerazione improvvisa, irragionata ed irragionevole ha portato ad un Parco malvoluto, dai confini incerti e tremolanti. Una legge, quella istitutiva del Parco, contraddittoria, con molti vuoti. Facile da impallinare, nel senso letterale del termine perché presa di mira da cacciatori ed associazioni agricole tanto da farla modificare ed integrare per ben tre volte. Le ultime due nel corso del 2017 con un'ulteriore revisione del perimetro già da elettrocardiogramma. Insomma, di tutto un po', per questo povero Parco Regionale, tranne che la gestione.
Eppure, gestire questo Parco da 25.000 ettari, con 13 Comuni della Provincia di Taranto (Ginosa, Laterza, Castellaneta, Mottola, Massafra, Palagiano, Palagianello, Statte, Crispiano, Martina Franca, Montemesola, Grottaglie e S. Marzano) ed uno della Provincia di Brindisi (Villa Castelli), uno dei Siti Natura 2000 più importanti del Continente europeo, vorrebbe dire curare un serbatoio per l'assorbimento di gas serra e di altro tipo emessi dall'ILVA, custodire la risposta biologica all'aggressione chimica dell'acciaieria. Tutto questo è presente nelle menti degli amministratori locali che dovrebbero curare il tesoro del Parco? Non è dato di sapere. Qualche segnale di vita va dato, comunque. Un'assunzione di responsabilità va fatta. Certo, a due mesi dalle elezioni politiche con le truppe cammellate pronte a raccogliere voti ed a fare promesse su tutt'altro, ogni speranza pare riposta male. Eppoi, vuoi mettere che cosa vuol dire apparire in tv e nei giornali ogni giorno per ribadire che l'ILVA uccide ma dà anche tanto lavoro e ricchezza e che gli indiani sono lì li per prenderla in mano e che c'è una guerra giudiziaria penale ed amministrativa... No, ma quale Parco regionale "Terra delle Gravine"! Qui si è seri: si parla solo di morte.

Accade nel #RegnoUnito -  da Woodland Trust






50 milioni di alberi nella Northern Forest





Map showing how the new Northern Forest will span the width of the country, from Liverpool to Hull.Woodland Trust, insieme a The Community Forest Trust, intende creare un'emozionante nuova Foresta del Nord che comprenderà oltre 50 milioni di alberi in 25 anni e si estenderà da Liverpool a Hull con l'autostrada M62 come colonna vertebrale. Questo ambizioso progetto ha ricevuto il sostegno del governo questa mattina.





Il progetto abbraccerà le principali città di Liverpool, Manchester, Sheffield, Leeds, Chester e Hull, nonché le principali città del nord. Fornirà importanti benefici ambientali, sociali ed economici che completano la crescita significativa, gli investimenti e le nuove infrastrutture che sono previste per il nord dell'Inghilterra.
La foresta settentrionale accelererà la creazione di nuovi boschi e sosterrà la gestione sostenibile dei boschi esistenti in tutta l'area. Molti altri alberi, boschi e foreste offriranno un ambiente migliore per tutti: migliorando la qualità dell'aria nelle nostre città; mitigando il rischio di alluvione nei bacini chiave; sostenendo l'economia rurale attraverso il turismo, la ricreazione e la produzione di legname; connettendo le persone con la natura; contribuendo a migliorare la salute e il benessere attraverso spazi verdi locali accoglienti e accessibili.
Con una popolazione di oltre 13 milioni di persone che dovrebbe aumentare del 9% nei prossimi 20 anni e con copertura boschiva a solo il 7,6%, al di sotto della media del Regno Unito del 13%, e molto al di sotto della media UE del 44%, il Nord d'Inghilterra è maturo per raccogliere i frutti di un tale progetto.
I tassi di piantumazione degli alberi sono drammaticamente bassi: nel 2016 solo 700 ettari contro l'obiettivo del governo di 5.000 ettari all'anno.
Austin Brady, direttore della conservazione di Woodland Trust, ha dichiarato: "L'Inghilterra sta perdendo la copertura forestale. Dobbiamo assicurarci di proteggere i nostri habitat più importanti come i boschi antichi e di investire in nuovi importanti progetti di creazione di boschi. Gli approcci esistenti per aumentare la copertura boschiva sono in stallo e i meccanismi di consegna esistenti, come le foreste comunitarie sono minacciati. Una nuova foresta del Nord potrebbe accelerare i benefici della silvicoltura delle comunità, sostenere la scala paesaggistica che lavora per la natura, offrire una vasta gamma di benefici, incluso contribuire a ridurre il rischio di inondazioni e adattare alcune delle principali città del Regno Unito ai cambiamenti climatici previsti. Il nord dell'Inghilterra è perfettamente adatto a raccogliere i frutti di un progetto su questa scala. Ma questo deve essere un approccio congiunto. Dovremo continuare a lavorare con il governo e altre organizzazioni per sfruttare nuovi meccanismi di finanziamento come quelli promessi nell'ambito della strategia di crescita pulita per piantare vaste aree boschive per bloccare il carbonio. Ciò garantirà che possiamo fare la differenza a lungo termine".
Paul Nolan, direttore della Mersey Forest, ha dichiarato: "La foresta settentrionale integrerà i previsti 75 miliardi di sterline di investimenti in infrastrutture lungo il corridoio M62. Abbiamo dimostrato che possiamo bloccare oltre 7 milioni di tonnellate di carbonio e ridurre potenzialmente il rischio di inondazioni per 190.000 abitazioni. La foresta settentrionale può anche contribuire a migliorare la salute e il benessere, attraverso programmi come il servizio sanitario naturale. Community Forest Trust ha una lunga esperienza nello sviluppo di partnership e, soprattutto, nel collaborare con le comunità locali per creare nuovi boschi e gestire boschi esistenti all'interno e attorno alle nostre città. Accogliamo con favore il sostegno del governo all'idea e non vediamo l'ora di accelerare il lavoro del Community Forest Trust attraverso la foresta settentrionale".
Attualmente ci sono cinque foreste comunitarie che si trovano nell'area proposta per la foresta settentrionale, tra cui Città degli alberi, Foresta delle rose bianche, Foresta di Mersey, Foreste di HeYwood e Foresta del South Yorkshire.

Un ottimo argomento di conversazione dal Washington Post e dal prof. R. Alexander Pyron della George Washington University






Non abbiamo bisogno di salvare
le specie a rischio di estinzione. L'estinzione è parte dell'evoluzione.





"Le estinzioni di massa periodicamente spazzano via fino al 95 percento di tutte le specie in un colpo solo; queste arrivano ogni 50 milioni-100 milioni di anni, e gli scienziati concordano sul fatto che siamo ora nel mezzo della sesta di tali estinzioni, questa causata principalmente dagli esseri umani e dai nostri effetti sugli habitat degli animali".







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Atelpus balios
Verso mezzanotte, durante una spedizione nell'Ecuador sudoccidentale nel dicembre 2013, ho avvistato una piccola rana verde addormentata su una foglia, vicino a un ruscello nei pressi della strada. Era l'Atelopus balios, il rospo del Rio Pescado. Sebbene un maschio isolato fosse stato avvistato nel 2011, nessuna popolazione era stata trovata dal 1995 e si pensava che fosse estinta. Ma eccolo qui, resuscitato dai morti come Lazzaro. I miei colleghi e io ne abbiamo trovati molti altri esemplari quella notte, maschi e femmine e li ho spediti a un'arca anfibia a Quito, dove ora sono allevati sani e salvi in ​​cattività. Ma un giorno si estingueranno e il mondo non se ne ricorderà più. Alla fine, saranno sostituiti da una dozzina o un centinaio di nuove specie che evolveranno in seguito.
Le estinzioni di massa periodicamente spazzano via fino al 95 percento di tutte le specie in un colpo solo; queste arrivano ogni 50 milioni-100 milioni di anni, e gli scienziati concordano sul fatto che siamo ora nel mezzo della sesta di tali estinzioni, questa causata principalmente dagli esseri umani e dai nostri effetti sugli habitat degli animali. È una tragedia "immensa e nascosta" vedere creature sterminate dall'uomo, ha deplorato l'entomologo di Harvard E.O. Wilson, che ha coniato il termine "biodiversità" nel 1985.
Un documento congiunto di alcuni importanti ricercatori pubblicato dalla National Academy of Sciences lo ha definto un "annientamento biologico". Papa Francesco attribuisce alla crisi della biodiversità un imperativo morale ("Ogni creatura ha il suo proprio scopo", ha detto nel 2015), e i biologi citano spesso un imperativo ecologico (dobbiamo evitare"un decadimento drammatico della biodiversità e la successiva perdita di servizi ecosistemici", hanno scritto in un articolo per Science Advances). "What is Conservation Biology?", Un testo fondamentale per la ricerca sul campo, scritto da Michael Soulé dell'Università della California a Santa Cruz, dice: "La diversità degli organismi è buona. . . L'estinzione prematura di popolazioni e specie è cattiva. . . [e] la diversità biotica ha un valore intrinseco." Nel suo libro "The Sixth Extinction", la giornalista Elizabeth Kolbert racchiude il panico che tutto ciò ha indotto: "Tale è il dolore causato dalla perdita di una singola specie che siamo disposti ad utilizzare gli ultrasuoni per i rinoceronti ed a manipolare i corvi".


"Ma l'impulso di 'conservare per la conservazione' ha assunto un'irragionevole, non supportata, inutile urgenza. L'estinzione è il motore dell'evoluzione.
Non esiste una specie 'in via di estinzione', ad eccezione di tutte le specie".


Ma l'impulso di "conservare per la conservazione" ha assunto un'irragionevole, non supportata, inutile urgenza. L'estinzione è il motore dell'evoluzione, il meccanismo attraverso il quale la selezione naturale elimina i meno capaci di adattarsi adattato e permette ai più resistenti di prosperare. Le specie si estinguono costantemente e ogni specie che è viva oggi un giorno seguirà l'esempio. Non esiste una specie "in via di estinzione", ad eccezione di tutte le specie. L'unica ragione per cui dobbiamo conservare la biodiversità è per noi stessi, per creare un futuro stabile per gli esseri umani. Sì, abbiamo alterato l'ambiente e, così facendo, feriamo altre specie. Questo sembra 'artificiale' perché noi, a differenza di altre forme di vita, usiamo la sensibilità, l'agricoltura e l'industria. Ma siamo parte della biosfera proprio come ogni altra creatura, e le nostre azioni sono altrettanto volitive, le loro conseguenze altrettanto naturali. Conservare una specie che abbiamo contribuito a non estinguersi, ma dalla quale non siamo direttamente dipendenti, serve a scaricare il nostro senso di colpa, ma poco altro.

"Eppure siamo ossessionati dal far rivivere lo status quo ante. Gli Accordi di Parigi mirano a mantenere la temperatura a meno di due gradi Celsius sopra i livelli preindustriali, anche se la temperatura è stata di almeno 8 gradi Celsius più calda negli ultimi 65 milioni di anni".

Gli scienziati del clima si preoccupano di come abbiamo alterato il nostro pianeta e hanno buone ragioni per essere apprensione: saremo in grado di nutrirci? Le nostre riserve idriche si prosciugheranno? Le nostre case saranno spazzate via? Ma a differenza di queste preoccupazioni, l'estinzione di specie non ha un significato morale, anche quando l'abbiamo causata. E a meno che non distruggiamo in qualche modo ogni cellula vivente sulla Terra, alla sesta estinzione seguirà una guarigione, e successivamente una settima estinzione, e così via.
Eppure siamo ossessionati dal far rivivere lo status quo ante. Gli Accordi di Parigi mirano a mantenere la temperatura a meno di due gradi Celsius sopra i livelli preindustriali, anche se la temperatura è stata di almeno 8 gradi Celsius più calda negli ultimi 65 milioni di anni. Ventimila anni fa, Boston era sotto una coltre di ghiaccio spessa un chilometro. Siamo vicini ai minimi storici per la temperatura e il livello del mare; qualunque sforzo noi facciamo per mantenere il clima attuale finirà per essere sopraffatto dalle forze inesorabili dello spazio e della geologia. La nostra preoccupazione, in altre parole, non dovrebbe essere rivolta a proteggere il regno animale, che andrà benissimo. Nel giro di pochi milioni di anni dall'asteroide che uccise i dinosauri, il vuoto post-apocalittico è stato riempito da un'esplosione di diversità: mammiferi moderni, uccelli e anfibi di tutte le forme e dimensioni.

"Il mondo non è né migliore né peggiore per l'assenza di tigri dai denti a sciabola, di uccelli dodo e dei nostri cugini neandertaliani, che si sono estinti a causa dell'evoluzione dell'Homo sapiens"

Ecco come procede l'evoluzione: attraverso l'estinzione. L'inevitabilità della morte è l'unica costante nella vita, e il 99,9 per cento di tutte le specie che hanno vissuto, fino a 50 miliardi, si sono già estinte. In 50 milioni di anni, l'Europa si scontrerà con l'Africa e formerà un nuovo supercontinente, distruggendo specie (pensiamo a uccelli, pesci e qualsiasi cosa vulnerabile alle forme di vita invasive da un'altra massa continentale) modificando irrimediabilmente i loro habitat. Le estinzioni di singole specie, di intere famiglie tassonomiche e perfino di interi ecosistemi sono eventi comuni nella storia della vita. Il mondo non è né migliore né peggiore per l'assenza di tigri dai denti a sciabola e uccelli da dodo e dei nostri cugini neandertaliani, che si sono estinti a causa dell'evoluzione dell'Homo sapiens. (Secondo alcuni studi, non è nemmeno chiaro che la biodiversità stia soffrendo. Gli autori di un altro recente documento della National Academy of Sciences sottolineano che la ricchezza di specie non ha mostrato un declino netto tra le piante in oltre 100 anni in 16.000 siti esaminati in tutto il mondo.)
La conservazione della biodiversità non dovrebbe essere fine a se stessa; la diversità può persino essere pericolosa per la salute umana. Le malattie infettive sono più prevalenti e virulente nelle più diverse aree tropicali. Nessuno offre donazioni a campagne per salvare l'HIV, l'ebola, la malaria, la dengue e la febbre gialla, ma queste sono componenti chiave della biodiversità microbica, uniche come i panda, gli elefanti e gli oranghi, che sono tutti apparentemente in pericolo a causa dell'interferenza umana.
Gli umani dovrebbero avere meno sensi di colpa nel modellare il loro ambiente per soddisfare i loro bisogni di sopravvivenza. Quando i castori fanno una diga, causano l'estinzione locale di numerose specie fluviali che non possono sopravvivere nel nuovo lago. Ma quel nuovo lago supporta un insieme di specie altrettanto vario. Alcuni studi hanno dimostrato che quando gli esseri umani introducono specie vegetali invasive, la diversità nativa a volte soffre, ma la produttività - il ciclo di nutrienti attraverso l'ecosistema - aumenta frequentemente. Gli invasivi possono portare anche altri benefici: piante come la canna di Phragmites hanno dimostrato di funzionare meglio per ridurre l'erosione costiera e per lo stoccaggio di carbonio rispetto alla vegetazione nativa in alcune aree, come il Chesapeake.



Gopherus polyphemus
"Non c'è ritorno ad un Eden pre-umano; gli obiettivi della conservazione delle specie devono essere allineati all'accettazione che un gran numero di animali si estinguerà".

E se la biodiversità è l'obiettivo dell'estinzione, in che modo i "maghi della paura" considerano la Florida del Sud, dove circa 140 nuove specie di rettili introdotte accidentalmente dal commercio di animali selvatici, stanno ora crescendo con successo? Non sono state registrate estinzioni di specie native e, almeno aneddoticamente, la maggior parte dei nativi è ancora in crescita. Le specie in pericolo, come le tartarughe gopher (Gopherus polyphemus) e i serpenti indigo (Drymarchon couperi), sono minacciati soprattutto dalla distruzione degli habitat. Anche se tutti i rettili nativi delle Everglades, circa 50 , si estingessero, la regione avrebbe comunque ottenuto 90 nuove specie. Se possono adattarsi e prosperare lì, l'evoluzione sta promuovendo il loro successo. Se superano i nativi, l'estinzione sta facendo il suo lavoro.


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Drymarchon couperi
Non c'è ritorno ad un Eden pre-umano; gli obiettivi della conservazione delle specie devono essere allineati all'accettazione che un gran numero di animali si estinguerà. Il trenta-quaranta per cento delle specie potrebbero essere minacciate di estinzione nel prossimo futuro e la loro perdita potrebbe essere inevitabile. Ma sia il pianeta che l'umanità possono probabilmente sopravvivere o prosperare in un mondo con meno specie. Non dipendiamo dagli orsi polari per la nostra sopravvivenza e anche se il loro sradicamento ha un effetto domino che alla fine ci colpisce, troveremo un modo per adattarci. Le specie su cui facciamo affidamento per cibo e riparo sono una piccola percentuale della biodiversità totale e la maggior parte degli esseri umani vive - e fa affidamento su - aree di moderata biodiversità, non in Amazzonia o nel bacino del Congo.
Se i cambiamenti climatici e l'estinzione presentano problemi, i problemi derivano dagli effetti drastici che avranno su di noi. Un miliardo di rifugiati climatici, carestie diffuse, industrie mondiali al tracollo, il dolore e la sofferenza dei nostri parenti richiedono attenzione all'ecologia e conferiscono alla conservazione un imperativo morale. Si prevede che un aumento della temperatura globale di due gradi Celsius innalzerà il livello dei mari da 0,2 a 0,4 metri, senza alcun effetto su vasti segmenti dei continenti e sulla maggior parte della biodiversità terrestre. Ma questo è sufficiente per inondare la maggior parte delle città costiere, e questo è importante.


"La conservazione è necessaria per noi stessi e solo per noi stessi. Tutte quelle persone future meritano una vita felice e sicura su un pianeta ecologicamente robusto, indipendentemente dallo stato del mondo naturale rispetto alla sua condizione preumana."


La soluzione è semplice: moderazione. Mentre non dovremmo provare rimorso per alterare il nostro ambiente, non c'è bisogno di bonificare le foreste per McMansions. Dovremmo salvare qualsiasi specie e habitat possa essere facilmente salvato (creature una volta in pericolo come aquile calve e falchi pellegrini ora prosperano), astenersi dall'inquinare corsi d'acqua, limitare il consumo di combustibili fossili e fare più affidamento su fonti di energia rinnovabile a basso impatto.
Dovremmo fare questo per creare un futuro stabile ed equo per i prossimi miliardi di persone, non per lo squalo del fiume del nord che si estingue. La conservazione è necessaria per noi stessi e solo per noi stessi. Le future generazioni meritano una vita felice e sicura su un pianeta ecologicamente robusto, indipendentemente dallo stato del mondo naturale rispetto alla sua condizione preumana. Non possiamo prosperare senza colture o impollinatori, né lungo le coste con l'innalzamento del livello del mare e con l'intensificarsi di tempeste e inondazioni.
Eppure quel pianeta robusto cancellerà ancora un'enorme quantità di vita animale e vegetale. Anche se viviamo il più a lungo possibile, molte creature moriranno e le specie aliene "corromperanno" gli ecosistemi nativi "incontaminati". La sesta estinzione è in corso ed è inevitabile - e il recupero a lungo termine della Terra è garantito dalla storia (anche se il processo sarà lento). L'invasione e l'estinzione sono i meccanismi rigenerativi e ringiovanenti dell'evoluzione, i motori della biodiversità.
Se questo significa meno specie abbaglianti, meno foreste incontaminate, meno  natura selvaggia, così sia. Torneranno nel tempo. L'Albero della Vita continuerà a ramificarsi, anche se potremo ripristinarlo. La domanda è: come vivremo nel frattempo?